La Corte di Cassazione ha stabilito un importante principio in materia di risarcimento del danno da mancato riconoscimento della paternità, affermando che il pregiudizio subito dal figlio non può essere limitato al solo periodo della minore età ma si estende anche alla vita adulta, seppur in misura decrescente. Inoltre, la dichiarazione giudiziale di paternità non elimina automaticamente il danno subito a causa dell’assenza della figura paterna durante la crescita.
Nel caso in esame, un uomo nato nel 1976 ha ottenuto il riconoscimento giudiziale della paternità dal Tribunale di Monza, che ha anche disposto l’aggiunta del cognome paterno e condannato il padre al risarcimento dei danni. Tuttavia, la Corte d’Appello di Milano aveva limitato il risarcimento al solo periodo della minore età, ritenendo che dopo il compimento dei 18 anni la sofferenza fosse stata “metabolizzata” e che l’accertamento giudiziale della paternità avesse in qualche modo “rimediato” al danno.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso del figlio, censurando la valutazione “astratta e avulsa” della Corte d’Appello, che non aveva considerato le specificità del caso concreto né indicato i criteri seguiti per determinare l’entità del risarcimento.
Avv. Cosimo Montinaro – e-mail segreteria@studiomontinaro.it
Indice
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI
La vicenda giudiziaria ha origine con l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità promossa da un uomo, nato nel 1976, nei confronti del presunto padre biologico. Il Tribunale di Monza, con sentenza del 2021, ha accolto la domanda, dichiarando la paternità biologica del convenuto e disponendo l’aggiunta del cognome paterno a quello materno già posseduto dall’attore, con conseguente annotazione nell’atto di nascita presso il Comune di registrazione.
Il Tribunale ha anche condannato il padre a risarcire al figlio, a titolo di danno non patrimoniale, la somma di oltre 30.000,00 euro, oltre interessi legali dalla data della sentenza all’effettivo pagamento. Nella liquidazione del danno, il giudice di primo grado ha limitato il risarcimento al periodo della minore età del figlio, ritenendo che il pregiudizio fosse maggiormente percepibile durante gli anni di crescita e prima formazione.
Dagli atti è emerso che il padre era a conoscenza della nascita del figlio fin dall’inizio, ma non lo aveva mai incontrato nonostante un tentativo della madre di far conoscere il bambino alla famiglia paterna. Il figlio è stato cresciuto esclusivamente dalla madre, che ha dovuto affrontare notevoli difficoltà economiche, mentre il padre conduceva un tenore di vita elevato, circostanza di cui era a conoscenza.
Il figlio ha proposto appello contro la sentenza di primo grado, contestando principalmente la limitazione del risarcimento al solo periodo della minore età e il quantum liquidato, ritenuto incongruo rispetto all’effettiva entità del danno subito.
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 2023, ha respinto l’appello, confermando l’impostazione del Tribunale. In particolare, la Corte territoriale ha affermato che il danno risarcibile dovesse essere limitato al periodo della minore età, in quanto la sofferenza per l’assenza della figura paterna sarebbe maggiormente percepibile negli anni di crescita, mentre una volta raggiunta la maggiore età la persona potrebbe vivere “senza particolari percezioni di tale assenza“.
Inoltre, la Corte d’Appello ha ritenuto che il valore di base delle tabelle in uso per il danno da morte del genitore dovesse essere considerevolmente ridotto, operando un abbattimento di quattro quinti. Tale riduzione è stata giustificata in base alla differenza tra la negazione della relazione paterno-filiale per omesso riconoscimento e la morte del genitore, nonché in considerazione della “rimediabilità” del danno attraverso l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità e dell’incertezza sulla qualità della relazione che si sarebbe instaurata in caso di riconoscimento spontaneo.
NORMATIVA E PRECEDENTI
La questione affrontata dalla Suprema Corte si inquadra nel contesto normativo degli articoli 2056 e 2059 del codice civile, relativi alla liquidazione del danno e al risarcimento del danno non patrimoniale. Il caso coinvolge anche i principi sanciti dagli articoli 2, 29, 30 e 31 della Costituzione, che tutelano i diritti inviolabili dell’uomo, la famiglia, la responsabilità genitoriale e la protezione dell’infanzia.
Rilevante è anche l’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che tutela il diritto al rispetto della vita familiare. Sul piano del diritto di famiglia, vengono in considerazione gli articoli 316 primo comma, 316 bis, 147 e 148 del codice civile, che disciplinano la responsabilità genitoriale e gli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione dei figli.
La Corte di Cassazione richiama la propria giurisprudenza consolidata, in particolare le sentenze n. 5652/2012, n. 3079/2015, n. 15148/2022 e n. 34986/2022, le quali hanno stabilito che la violazione dei doveri genitoriali può integrare gli estremi dell’illecito civile quando cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, dando luogo ad un’autonoma azione risarcitoria ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità.
La Cassazione ricorda anche il principio, enunciato nella sentenza n. 26205/2013 e ribadito nella n. 15148/2022, secondo cui il danno subito dal figlio deve essere liquidato in misura proporzionale alla maggiore incidenza dell’assenza della figura paterna durante il periodo cruciale degli anni di sviluppo e crescita (0-18 anni) e poi in misura decrescente per il periodo successivo, quando la situazione abbandonica può ritenersi parzialmente stabilizzata o in fase di progressiva compensazione.
Per quanto riguarda la liquidazione equitativa del danno, la Corte richiama la sentenza n. 8213/2013, che ha stabilito che il giudice di merito, per evitare decisioni arbitrarie, deve indicare i criteri seguiti per determinare l’entità del risarcimento, dando conto dei dati di fatto acquisiti al processo come fattori costitutivi dell’ammontare dei danni liquidati.
Infine, la Cassazione fa riferimento alla sentenza n. 9930/2023 in tema di prescrizione, che ha qualificato l’illecito di abbandono parentale come di natura permanente, che si protrae fino a quando il comportamento abbandonico viene meno.
DECISIONE DEL CASO E ANALISI
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del figlio, censurando la decisione della Corte d’Appello sotto diversi profili.
In primo luogo, la Suprema Corte ha rilevato che l’affermazione secondo cui il danno da mancato riconoscimento sarebbe limitato al periodo della minore età è fondata su una valutazione astratta e priva di ogni riferimento alle specificità del caso concreto. La Corte d’Appello non ha infatti indicato i criteri e gli indici fattuali in base ai quali ha ritenuto che la sofferenza del figlio fosse terminata al compimento del diciottesimo anno di età.
Secondo la Cassazione, il giudice di merito avrebbe dovuto considerare la caratterizzazione specifica della situazione abbandonica, valutandone l’entità anche in relazione alla sua durata. Nel caso di specie, era stato accertato che il padre sapeva della nascita del figlio fin dall’inizio e non lo aveva mai incontrato, elementi che la Corte territoriale ha completamente trascurato nella sua valutazione.
La Suprema Corte ha ribadito che ai fini del risarcimento del danno subito dal figlio in conseguenza dell’abbandono da parte di un genitore, occorre considerare se quest’ultimo abbia disatteso i propri doveri consapevolmente e intenzionalmente o anche solo per colpa. La prova può desumersi da presunzioni gravi, precise e concordanti, ricavate dal complesso degli indizi valutati nel loro insieme.
Un altro aspetto censurato dalla Corte di Cassazione riguarda l’affermazione della Corte d’Appello secondo cui l’accertamento giudiziale della paternità determinerebbe l’elisione del pregiudizio subito dal figlio per il periodo successivo a tale accertamento. Tale affermazione, secondo la Suprema Corte, non può essere formulata in via astratta e generalizzata, poiché l’accertamento giudiziale potrebbe rendere solo parzialmente emendabile la perdita della relazione parentale-filiale, ad esempio nel caso in cui non riesca a costituirsi un rapporto affettivo tra padre e figlio ex post.
La Cassazione ha anche criticato il criterio di liquidazione adottato dalla Corte d’Appello, che ha operato un abbattimento di quattro quinti del valore minimo previsto dalle tabelle per il danno da decesso del genitore. Tale decurtazione è stata giustificata facendo riferimento a valutazioni astratte e stereotipate, senza indicare i concreti indici e parametri di valutazione adottati in relazione alle specificità del caso.
In particolare, la Corte ha rilevato che l'”incertezza sulla qualità della relazione“, valorizzata dalla Corte d’Appello per giustificare la decurtazione, è in realtà un dato “neutro“, non idoneo a ridondare in senso sfavorevole al danneggiato, poiché dipende proprio dalla mancanza di ogni relazione addebitabile al padre.