In una recente ordinanza, la Corte di Cassazione ha affrontato una questione di notevole rilevanza pratica in materia di separazione coniugale, concernente l’utilizzabilità processuale dei messaggi di chat rinvenuti sul cellulare del coniuge. Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte riguarda una coppia di coniugi in fase di separazione, dove la moglie aveva richiesto l’addebito della separazione al marito, presentando come prova principale della relazione extraconiugale alcuni screenshot di conversazioni WhatsApp e Telegram trovati sul telefono del marito. Secondo quanto sostenuto dalla ricorrente, tali messaggi sarebbero stati legittimamente acquisiti in virtù della condivisione delle password tra i coniugi. La questione centrale affrontata dalla Cassazione riguarda la validità probatoria di messaggi acquisiti dal dispositivo dell’altro coniuge e, più specificamente, se la testimonianza “de relato” (per sentito dire) di una persona amica della moglie possa essere considerata sufficiente per confermare la legittimità dell’accesso a tali conversazioni. La Corte di Appello aveva ritenuto provata l’infedeltà coniugale sulla base di questi elementi, addebitando la separazione al marito e aumentando l’importo degli assegni di mantenimento sia per la moglie che per il figlio minore della coppia. Tuttavia, il ricorso in Cassazione ha messo in discussione proprio la legittimità dell’acquisizione di tali prove e il loro valore probatorio nel contesto del procedimento di separazione.
La vicenda processuale si inserisce nel più ampio dibattito sulla tutela della privacy nelle relazioni familiari e sul complesso equilibrio tra diritto alla riservatezza delle comunicazioni e necessità di accertamento dei fatti rilevanti in ambito di diritto familiare. La Suprema Corte, con questa decisione, ha avuto l’opportunità di chiarire importanti principi in tema di utilizzabilità delle prove digitali nei procedimenti di separazione e divorzio, fornendo indicazioni preziose sia per i professionisti del diritto che per i coniugi coinvolti in simili controversie. La pronuncia si rivela particolarmente significativa nell’attuale contesto sociale, caratterizzato dalla crescente digitalizzazione delle comunicazioni interpersonali, dove sempre più spesso le crisi coniugali vengono documentate attraverso prove digitali.
➡️RICHIEDI UNA CONSULENZA ⬅️ all’Avv. Cosimo Montinaro – e-mail segreteria@studiomontinaro.it
Indice
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
- SCARICA LA SENTENZA ⬇️
ESPOSIZIONE DEI FATTI
La vicenda giudiziaria prende avvio dal giudizio di separazione personale tra una coppia di coniugi, dalla cui unione era nato un figlio minorenne. Il procedimento di primo grado si era concluso con una sentenza del Tribunale di Pesaro che, preso atto dell’intollerabilità della convivenza, aveva dichiarato la separazione personale dei coniugi senza addebitarla ad alcuna delle parti. Il giudice di prime cure aveva disposto l’affidamento condiviso del figlio minore, con domiciliazione prevalente presso la madre, alla quale era stata assegnata anche la casa coniugale in qualità di collocataria del minore. Per quanto attiene agli aspetti economici, il Tribunale aveva posto a carico del marito un assegno mensile di mantenimento per il figlio e uno per la moglie, determinati rispettivamente in 500 euro e 1.800 euro mensili, oltre all’adeguamento ISTAT e alle spese straordinarie per il minore, dichiarando infine integralmente compensate tra le parti le spese di lite.
La moglie, ritenendo la decisione non soddisfacente, aveva interposto appello chiedendo la riforma della sentenza di primo grado e, in particolare, la pronuncia di addebito della separazione al marito per infedeltà coniugale. Sul piano economico, la moglie aveva inoltre richiesto un aumento dell’assegno di mantenimento in suo favore, da determinarsi in 2.200 euro mensili, anche in considerazione della rata del mutuo per la casa di proprietà (pari a circa 800/900 euro mensili), e un incremento dell’assegno per il figlio da 500 a 800 euro mensili. A supporto della domanda di addebito, la donna aveva prodotto in giudizio alcuni screenshot di conversazioni WhatsApp e Telegram trovati nel telefono del marito, dai quali emergeva una relazione extraconiugale. Per dimostrare la legittimità dell’acquisizione di tali conversazioni, la moglie aveva fatto testimoniare un’amica, la quale aveva riferito in udienza che, secondo quanto confidatole dalla stessa moglie, i coniugi condividevano reciprocamente le password dei rispettivi telefoni.
La Corte d’Appello di Ancona, valutando tale materiale probatorio, aveva accolto l’appello riformando la sentenza di primo grado: aveva riconosciuto l’addebito della separazione al marito per comprovata infedeltà coniugale e aveva altresì aumentato l’ammontare dell’assegno di mantenimento sia per la moglie che per il figlio, alla luce di una rivalutazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi. Il marito, ritenendo illegittima tale decisione, aveva proposto ricorso per Cassazione articolando dodici motivi di impugnazione, tra cui spiccavano quelli relativi all’illegittima acquisizione delle chat e all’erronea valutazione delle stesse come prova dell’infedeltà, nonché all’illegittimo utilizzo della testimonianza de relato per stabilire la condivisione delle password tra i coniugi.
NORMATIVA E PRECEDENTI
La questione giuridica centrale del caso in esame ruota attorno alla legittimità dell’acquisizione e dell’utilizzabilità processuale di messaggi privati recuperati dal dispositivo mobile del coniuge, coinvolgendo diversi ambiti normativi di particolare rilevanza. Il diritto alla riservatezza delle comunicazioni rappresenta un principio costituzionalmente garantito e tutelato anche a livello sovranazionale, che si confronta nel caso di specie con le esigenze probatorie nell’ambito di un procedimento di separazione personale. In questo contesto, risulta fondamentale l’applicazione dell’articolo 2, comma 6, del regolamento del Garante della privacy del 19 dicembre 2018, recante “Regole deontologiche relative ai trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive o per fare valere o difendere un diritto in sede giudiziaria“, pubblicato ai sensi dell’art. 20, comma 4, del D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101. Tale normativa definisce i limiti e le condizioni per l’utilizzo di dati personali in contesti processuali.
Sul piano del diritto processuale civile, vengono in rilievo gli articoli 115 e 116 del codice di procedura civile, che disciplinano rispettivamente la disponibilità delle prove e la loro valutazione. Particolarmente rilevante è anche l’articolo 2697 del codice civile in materia di onere della prova, in base al quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Per quanto concerne specificamente la materia della separazione personale, il riferimento normativo è rappresentato dall’articolo 151 del codice civile, che disciplina la separazione giudiziale e prevede la possibilità dell’addebito quando la separazione è addebitabile al comportamento di uno dei coniugi contrario ai doveri derivanti dal matrimonio.
In tema di assegno di mantenimento nella separazione, assume particolare rilevanza l’articolo 156 del codice civile, che stabilisce i criteri per la determinazione dell’assegno a favore del coniuge economicamente più debole. La corretta interpretazione di tale norma ha rappresentato un punto controverso nel giudizio, tanto che uno dei motivi di ricorso ha riguardato proprio la parametrazione dell’assegno di mantenimento al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Sul fronte giurisprudenziale, la Cassazione ha richiamato numerosi precedenti significativi. In particolare, in relazione al valore probatorio della testimonianza de relato, la Suprema Corte ha fatto riferimento alle sentenze n. 569 del 15/01/2015 e n. 8358 del 03/04/2007, nelle quali è stato affermato il principio secondo cui i testimoni “de relato actoris“, che depongono su fatti e circostanze apprese direttamente dalla parte che ha proposto il giudizio, hanno una rilevanza probatoria sostanzialmente nulla, in quanto la loro deposizione verte sul fatto della dichiarazione di una parte e non sul fatto oggetto dell’accertamento. Diversamente, i testimoni “de relato” in senso lato, che riferiscono circostanze apprese da persone estranee al giudizio, possono assumere rilievo ai fini del convincimento del giudice, seppur con rilevanza attenuata, nel concorso di altri elementi oggettivi e concordanti.
Per quanto riguarda i criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento nella separazione, la Cassazione ha richiamato il consolidato orientamento espresso nelle sentenze n. 12196/17, n. 17098/19, n. 5605/20 e n. 22616/22, secondo cui nella separazione personale, a differenza del divorzio, permane il vincolo coniugale e quindi l’assegno va parametrato al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale.
DECISIONE DEL CASO E ANALISI
La Suprema Corte ha accolto il ricorso limitatamente al terzo motivo, relativo all’illegittimo utilizzo della testimonianza de relato actoris, dichiarando assorbiti i motivi dal primo al quinto (tutti concernenti la questione dell’addebito), rigettando il dodicesimo motivo e dichiarando inammissibili quelli dal sesto all’undicesimo. La decisione si concentra principalmente sulla validità probatoria della testimonianza de relato e sulle conseguenze che ne derivano in termini di utilizzabilità delle conversazioni acquisite dal telefono del coniuge.
Il punto cruciale dell’ordinanza riguarda la valutazione della testimonianza resa dalla amica della moglie, che aveva riferito in udienza quanto appreso direttamente dalla stessa circa la condivisione delle password dei telefoni tra i coniugi. Secondo la Cassazione, la Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto provata tale circostanza sulla base di una testimonianza che, essendo de relato actoris, ha “rilevanza sostanzialmente nulla” sul piano probatorio. La Suprema Corte ribadisce infatti che i testimoni de relato actoris depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto che ha proposto il giudizio, quindi la loro deposizione verte sul fatto della dichiarazione di una parte e non sul fatto oggetto dell’accertamento. Di conseguenza, non può ritenersi legittimamente provata la circostanza della condivisione delle password dei dispositivi mobili, elemento decisivo per stabilire la legittimità dell’acquisizione delle conversazioni.
Questa valutazione ha ripercussioni significative sull’utilizzabilità delle chat prodotte in giudizio dalla moglie, che la Corte d’Appello aveva posto a fondamento della decisione di addebitare la separazione al marito. Senza una prova valida della legittima acquisizione delle conversazioni, queste risultano inutilizzabili ai fini del giudizio. La Cassazione sottolinea che “l’utilizzo delle chat da parte del giudice di merito si rivela illegittimo con conseguente inutilizzabilità delle stesse” e che tale circostanza risulta decisiva ai fini della valutazione complessiva della domanda di addebito.
La Suprema Corte ha invece rigettato il dodicesimo motivo di ricorso, con cui il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 156 c.c. per avere la Corte d’Appello erroneamente parametrato l’assegno di mantenimento al tenore di vita dei coniugi. Sul punto, la Cassazione ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, a differenza del divorzio, nella separazione personale permane il vincolo coniugale e dunque “i redditi adeguati cui va rapportato l’assegno di mantenimento sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio“, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale.
Per quanto riguarda i motivi dal sesto all’undicesimo, relativi principalmente alla valutazione delle condizioni economiche dei coniugi e alla determinazione degli importi degli assegni di mantenimento, la Cassazione li ha dichiarati inammissibili in quanto finalizzati a ottenere una diversa valutazione delle prove già esaminate nel merito. La Suprema Corte ha ribadito il principio secondo cui l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto “nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa“, ma solo quello di controllare la correttezza logica e giuridica della motivazione.
In conclusione, la Corte ha cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte d’Appello di Ancona in diversa composizione, affinché rivaluti l’intera questione dell’addebito alla luce dei principi enunciati, in particolare dell’inutilizzabilità delle chat acquisite in modo non provato come legittimo.
ESTRATTO DELLA SENTENZA
“Ciò posto, va esaminato il terzo motivo del ricorso che è fondato per le seguenti ragioni. Il ricorrente contesta l’utilizzo della testimonianza de relato ex parte actoris da parte della Corte di appello al fine di dimostrare la esistenza di una relazione extraconiugale del signor A.A. con tale signora E.E.. Con la deposizione resa in primo grado all’udienza del 14/06/2022 la teste D.D., amica della signora B.B., dichiarava: “sono a conoscenza dei fatti di causa in quanto sono amica della convenuta da tantissimi anni. Posso dire che nel settembre del 2020 B.B. mi chiamò al telefono e disse che voleva parlarmi di una cosa importante. Ci siamo incontrate. B.B. mi raccontò che qualche mese prima era a casa con il marito, ad un certo punto lui spense la televisione e le disse che doveva dirle una cosa, le disse che lui aveva una relazione con un’altra donna, con la quale si incontrava. Lei mi raccontò che dopo la confessione del marito aveva trovato delle chat sul telefono del marito, tra il marito e una donna, di contenuto inequivocabile, da cui si capiva che c’era una relazione. B.B. mi riferì che lei e il marito condividevano le password dei rispettivi telefoni”. Orbene, la Corte distrettuale utilizza tale testimonianza unitamente alle chat versate in atti per ritenere accertata la relazione extraconiugale del A.A. quale motivo scatenante della crisi coniugale ai fini dell’addebito della separazione. L’utilizzo delle chat da parte del giudice di merito si rivela illegittimo con conseguente inutilizzabilità delle stesse ai fini di riscontro di quanto dichiarato dalla teste. Ciò in quanto non vi è prova idonea per ritenere acquisite in modo legittimo le conversazioni tramite Whattsapp e Telegram dal telefono del A.A., atteso che la circostanza che i coniugi avessero accesso ai rispettivi telefoni ed in particolare alle password è riferita dalla teste D.D. per averlo appreso dalla parte, ossia dalla signora B.B.”
(Corte di Cassazione, Sez. I, ordinanza n. 4530/2025)
