Il coniuge che richiede l’assegno ha l’onere di provare di essersi attivato per trovare lavoro – Cassazione 2021

Una importante pronuncia della Corte di Cassazione ha recentemente delineato i contorni del dovere di autoresponsabilità economica del coniuge separato che richiede l’assegno di mantenimento. Con l’ordinanza n. 20866 del 2021, i giudici di legittimità hanno cristallizzato un principio che segna un’evoluzione significativa nell’interpretazione dell’art. 156 del Codice Civile, stabilendo che il diritto all’assegno di mantenimento trova un limite invalicabile nel mancato impegno del richiedente a mettere a frutto le proprie capacità lavorative. La questione centrale esaminata dalla Suprema Corte riguarda il rapporto tra il diritto al mantenimento del tenore di vita matrimoniale e il dovere di attivarsi per procurarsi redditi propri, evidenziando come il coniuge economicamente più debole non possa legittimamente pretendere un sostegno economico se, pur avendo competenze professionali spendibili, non dimostra di essersi concretamente attivato nella ricerca di un’occupazione dopo la separazione. Nel caso di specie, la Corte si è trovata a valutare la legittimità della riduzione dell’assegno di mantenimento operata dalla Corte d’Appello nei confronti di una moglie che, pur possedendo un titolo professionale qualificante e avendo precedentemente lavorato, non aveva dimostrato di essersi proposta sul mercato occupazionale dopo la fine della convivenza coniugale. La vicenda processuale si è sviluppata attraverso tre gradi di giudizio, con pronunciamenti che hanno progressivamente definito i requisiti necessari per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento e hanno spostato l’onere della prova sulla parte che richiede il beneficio economico. Di particolare interesse risulta l’analisi condotta dalla Cassazione sulla natura giuridica dell’assistenza materiale tra coniugi separati e sui limiti che tale obbligo incontra quando si confronta con il principio di autoresponsabilità economica. La decisione si inserisce in un percorso giurisprudenziale che negli ultimi anni ha progressivamente valorizzato l’autonomia e la responsabilità individuale dei coniugi separati, pur nel rispetto delle legittime aspettative di mantenimento del tenore di vita goduto durante il matrimonio. Questa sentenza rappresenta pertanto un importante punto di riferimento per la comprensione degli attuali orientamenti giurisprudenziali in materia di diritto di famiglia, con significative implicazioni pratiche per chi si trova ad affrontare un procedimento di separazione.

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Indice

  • ESPOSIZIONE DEI FATTI
  • NORMATIVA E PRECEDENTI
  • DECISIONE DEL CASO E ANALISI
  • ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI

La vicenda giudiziaria prende avvio con una pronuncia del Tribunale di Roma che, con sentenza n. 1606/2014, ha dichiarato la separazione personale dei coniugi C.A. e A.S., rigettando le reciproche domande di addebito. Il giudice di primo grado ha disposto l’affidamento condiviso della figlia minore G., con residenza prevalente presso la madre, stabilendo le modalità di visita da parte del padre. Sul piano economico, il Tribunale ha posto a carico del signor A.S. l’obbligo di corrispondere un assegno mensile di mantenimento di 800 euro per la moglie e 900 euro per la figlia, oltre alle spese straordinarie da sostenersi per la minore, prevedendo la rivalutazione annuale degli importi su base ISTAT.

Entrambi i coniugi hanno proposto appello avverso la sentenza di primo grado. La Corte d’Appello di Roma, con la decisione successivamente impugnata in Cassazione, ha confermato l’assenza di addebito per il marito, rilevando che, dalle risultanze probatorie, emergeva “non tanto la rottura di un matrimonio ma l’assenza di un ‘vero’ matrimonio”. I giudici di secondo grado hanno osservato che i coniugi non avevano mai sviluppato una reale comunione materiale e spirituale di vita, incontrando enormi difficoltà nella gestione della vita comune e persino dell’intimità coniugale. In tale contesto, la relazione extraconiugale del marito, documentata dalla moglie, è stata valutata come conseguenza della disaffezione reciproca già in atto e non come causa della crisi matrimoniale.

Un aspetto particolarmente rilevante della vicenda ha riguardato la situazione economico-lavorativa della signora C.A. La Corte d’Appello, considerando la sua giovane età (35 anni), il titolo professionale posseduto (ortottista) e l’attività lavorativa svolta prima della nascita della figlia, ha ritenuto che il suo stato di disoccupazione non fosse incolpevole, in quanto la donna non aveva dimostrato di essersi attivata nella ricerca di un lavoro. Sulla base di tale valutazione, i giudici distrettuali hanno ridotto l’assegno di mantenimento precedentemente stabilito dal Tribunale, indicando in motivazione la somma di 400 euro e nel dispositivo quella di 300 euro. La Corte ha inoltre respinto la richiesta di modificare il collocamento della minore, pur modulando diversamente le frequentazioni tra padre e figlia, e ha compensato per un terzo le spese di lite, ponendo la residua parte a carico della signora C.A.

Avverso tale decisione, la signora C.A. ha proposto ricorso per cassazione articolando sei motivi di doglianza, mentre il signor A.S. ha presentato ricorso incidentale fondato su un unico motivo. I principali profili di contestazione sollevati dalla ricorrente principale riguardavano: la mancata pronuncia dell’addebito a carico del marito nonostante la provata infedeltà; la contraddittorietà tra motivazione e dispositivo nella quantificazione dell’assegno di mantenimento; l’erronea valutazione della sua attitudine al lavoro; la mancata considerazione del fatto che, prima della nascita della figlia, aveva collaborato con il marito nei suoi studi medici e successivamente aveva abbandonato l’attività lavorativa per dedicarsi all’accudimento della minore; l’illegittima retrodatazione della riduzione dell’assegno alla pronuncia di primo grado; l’ingiusta condanna alle spese processuali nonostante la prevalente soccombenza del marito.

Il ricorso incidentale del signor A.S. censurava invece la decisione della Corte d’Appello in punto di modalità di affidamento e collocamento della figlia, lamentando che i giudici distrettuali non avessero tenuto conto delle esigenze della minore emerse nella relazione dei servizi sociali del febbraio 2016, nella quale si dava atto del rammarico della ragazza per non poter più incontrare il padre il martedì e della necessità di rivalorizzare il ruolo educativo paterno attraverso una maggiore frequenza di visita.

La Suprema Corte, nell’esaminare i ricorsi, si è concentrata in particolare sui profili relativi all’assegno di mantenimento e alla valutazione della capacità lavorativa della moglie, enunciando principi di diritto destinati a orientare i giudici di merito nella determinazione dei presupposti per il riconoscimento del contributo economico in favore del coniuge economicamente più debole.

NORMATIVA E PRECEDENTI

Il quadro normativo di riferimento per la questione in esame trova il suo fulcro nell’articolo 156 del Codice Civile, che disciplina gli effetti patrimoniali della separazione personale tra coniugi. La disposizione stabilisce che il giudice, pronunciando la separazione, dispone a carico di uno dei coniugi l’obbligo di versare all’altro un assegno di mantenimento quando quest’ultimo non abbia adeguati redditi propri e non vi siano a suo carico ragioni di addebito. Nella determinazione di tale assegno, il giudice deve tenere conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, nonché del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di entrambi.

La norma si inserisce nel più ampio contesto degli effetti della separazione personale che, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, non interrompe il vincolo coniugale ma determina soltanto la sospensione di alcuni doveri matrimoniali, in particolare quelli di natura personale (fedeltà, convivenza e collaborazione). Permane invece il dovere di assistenza materiale, fondamento giuridico dell’assegno di mantenimento, finalizzato a consentire al coniuge economicamente più debole di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

L’interpretazione dell’art. 156 c.c. è stata oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali che hanno progressivamente definito i presupposti per il riconoscimento dell’assegno e i criteri per la sua determinazione. In particolare, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha richiamato e sviluppato alcuni precedenti giurisprudenziali di fondamentale importanza.

Un primo filone riguarda la rilevanza dell’attitudine al proficuo lavoro dei coniugi quale elemento valutabile ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento. La Suprema Corte ha da tempo affermato che il giudice deve tener conto non solo dei redditi in denaro, ma anche di ogni utilità o capacità suscettibile di valutazione economica, precisando tuttavia che tale attitudine assume rilievo solo se riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale, e non già di mere valutazioni astratte e ipotetiche (Cass. 789/2017, Cass. 3502/2013, Cass. 18547/2006, Cass. 12121/2004).

Con l’ordinanza n. 20866/2021, la Cassazione ha però compiuto un passo ulteriore, chiarendo che questo principio non può essere amplificato fino al punto di ritenere che una concreta attitudine al lavoro possa rimanere non sfruttata a causa dell’inerzia dello stesso richiedente l’assegno. Un simile comportamento inattivo, secondo la Corte, si pone in contrasto con il reale contenuto del dovere di assistenza coniugale, come già precisato nella sentenza n. 12196/2017.

Un secondo filone giurisprudenziale richiamato dalla Corte riguarda la distribuzione dell’onere probatorio in materia di assegno di mantenimento. La Cassazione ha ribadito che la prova dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno incombe su chi ne chiede il beneficio, in conformità al principio generale sancito dall’art. 2697 c.c. e in linea con quanto affermato nella sentenza n. 1691/1987. Spetta quindi al coniuge richiedente dimostrare l’esistenza di una condizione personale, patrimoniale e reddituale che giustifichi la richiesta del beneficio, nonché il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

La Suprema Corte ha inoltre precisato, richiamando la sentenza n. 6886/2018, che quando sia stato accertato che il coniuge richiedente aveva la possibilità di lavorare, rientra nell’onere probatorio dello stesso la dimostrazione della non colpevolezza della propria condizione economica. Ciò significa che il richiedente l’assegno deve provare di essersi concretamente attivato sul mercato del lavoro per reperire un’occupazione confacente alle proprie attitudini professionali.

Un terzo profilo giurisprudenziale rilevante riguarda la permanenza degli effetti di un accordo tra i coniugi in forza del quale uno di essi non abbia svolto attività lavorativa per dedicarsi alla famiglia. La Cassazione ha in passato affermato che, poiché la separazione instaura un regime che tende a conservare il più possibile gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza, se prima della separazione i coniugi hanno concordato – o, quanto meno, accettato – che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione (Cass. 18547/2006, Cass. 3291/2001). Tuttavia, con l’ordinanza in esame, la Corte ha precisato che tale principio vale a mantenere un assetto che sia il frutto di un concorde indirizzo della vita familiare, ex art. 144 c.c., ma non certo a perpetuare una condizione avvertita come un’imposizione.

Infine, sul piano processuale, la Cassazione ha richiamato la propria giurisprudenza in materia di vizi della sentenza, in particolare per quanto riguarda il contrasto tra motivazione e dispositivo, precisando che il carattere insanabile di un simile contrasto, incidendo sull’idoneità del provvedimento a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, determina la nullità della sentenza (Cass. 26074/2018, Cass. 16014/2017, Cass. 26077/2015).

DECISIONE DEL CASO E ANALISI

La Suprema Corte, nell’affrontare le questioni poste dai ricorsi principale e incidentale, ha elaborato un’articolata analisi giuridica che ha portato all’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale, alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso incidentale e al rinvio della causa alla Corte d’Appello in diversa composizione per un nuovo esame. La decisione offre importanti spunti di riflessione sia sotto il profilo sostanziale che processuale.

Con riferimento al primo motivo del ricorso principale, riguardante la mancata pronuncia dell’addebito a carico del marito nonostante la provata infedeltà, la Cassazione ha ritenuto la censura in parte infondata e in parte inammissibile. In primo luogo, la Corte ha precisato che, sebbene in linea generale l’onere di provare sia la contrarietà del comportamento del coniuge ai doveri matrimoniali, sia l’efficacia causale di tali comportamenti nel rendere intollerabile la convivenza, gravi sulla parte che richieda l’addebito, tale regola viene superata quando si constati la mancanza di un nesso causale fra infedeltà e crisi coniugale. In particolare, quando risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale, trovano applicazione le comuni regole in tema di onere della prova dettate dall’art. 2697 c.c., per cui chi eccepisce l’inefficacia delle condotte poste a fondamento della domanda deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà.

Nel caso di specie, entrambi i giudici di merito avevano rilevato che dalle risultanze probatorie emergeva “non tanto la rottura di un matrimonio ma l’assenza di un ‘vero’ matrimonio”, evidenziando come i coniugi non avessero mai sviluppato una reale comunione materiale e spirituale di vita. La Cassazione ha ritenuto che, in tale contesto, l’allegazione dell’anteriorità della crisi rispetto alla violazione dei doveri matrimoniali fosse stata adeguatamente provata, tanto che la decisione impugnata sottolineava espressamente che la ricostruzione del primo giudice era fondata “non soltanto sulle deposizioni dei testi, ma persino sulle stesse allegazioni delle parti, che evidenziano reciprocamente di non essere mai stata realmente una ‘coppia’ avendo avuto sin da subito problemi a relazionarsi persino sul piano intimo”.

La Suprema Corte ha inoltre precisato che l’eccezione concernente la mancanza di un nesso di causalità fra infedeltà e intollerabilità della prosecuzione della convivenza rientra nelle cosiddette eccezioni in senso lato, che possono essere rilevate d’ufficio dal giudice a fronte della rituale allegazione e della puntuale dimostrazione dei fatti che suffragano l’effettiva esistenza di tale situazione. In altri termini, il giudice chiamato a pronunciare la separazione può rilevare d’ufficio, al fine di rigettare la domanda di addebito, gli effetti dell’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà, purché la stessa sia stata allegata dalla parte interessata e risulti dal materiale probatorio.

Di particolare interesse è l’analisi condotta dalla Corte in relazione ai motivi di ricorso riguardanti l’assegno di mantenimento. La Cassazione ha ritenuto non fondato il terzo motivo, con cui la ricorrente lamentava l’erronea valutazione della sua attitudine al lavoro, ed ha colto l’occasione per enunciare un importante principio di diritto. La Corte ha ribadito che in tema di separazione fra coniugi, l’attitudine al proficuo lavoro costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione dell’assegno, purché venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale.

Tuttavia, la Suprema Corte ha precisato che questo principio non può essere amplificato fino al punto di ritenere che una concreta attitudine al lavoro possa rimanere non sfruttata a causa dell’inerzia dello stesso richiedente l’assegno, con il risultato di addossare l’onere del suo mantenimento sul coniuge separato e occupato. Un simile comportamento inattivo si pone in contrasto con il reale contenuto del dovere di assistenza coniugale, che trova il suo limite nel non poter essere ampliato sino a pretendere quanto lo stesso coniuge meno abbiente potrebbe procurarsi mettendo ragionevolmente a frutto le proprie attitudini.

Da queste considerazioni, la Cassazione ha tratto un principio di diritto destinato a orientare i giudici di merito: “il riconoscimento dell’assegno di mantenimento per mancanza di adeguati redditi propri previsto dall’art. 156 c.c., essendo espressione del dovere solidaristico di assistenza materiale, non può estendersi a ciò che l’istante sia in grado, secondo il canone dell”ordinaria diligenza’, di procurarsi da solo. Rimane perciò a carico del coniuge richiedente l’assegno di mantenimento, ove risulti accertata in fatto la sua possibilità di lavorare, l’onere di dimostrare di essersi inutilmente attivato e proposto sul mercato occupazionale per mettere a frutto le proprie attuali attitudini professionali”.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello, una volta accertata la concreta capacità di reddito della ricorrente (in ragione della giovane età, del titolo professionale qualificante di ortottista e dell’attività professionale svolta fino alla nascita della figlia) e la sua possibilità di proporsi sul mercato del lavoro, aveva correttamente ritenuto che la stessa dovesse attivarsi per cercare opportunità lavorative, e aveva tratto le conseguenze del mancato assolvimento del relativo onere probatorio.

La Cassazione ha invece accolto il secondo motivo di ricorso, con cui la ricorrente lamentava la nullità della sentenza impugnata per contrasto insanabile tra parte motiva (dove la misura dell’assegno era indicata in 400 euro) e parte dispositiva (che fissava l’assegno in 300 euro). La Corte ha ritenuto che tale contraddizione, non essendo possibile individuare con certezza la reale portata della decisione attraverso le argomentazioni svolte in sentenza, determinasse la nullità del provvedimento, incidendo sulla sua idoneità a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale.

Con riferimento al quarto motivo, relativo alla mancata considerazione del fatto che la ricorrente, prima della nascita della figlia, aveva collaborato con il marito nei suoi studi medici e successivamente aveva abbandonato l’attività lavorativa per dedicarsi all’accudimento della minore, la Cassazione ha ritenuto la censura in parte inammissibile e in parte infondata. Secondo la Corte, la Corte d’Appello non aveva affatto trascurato di esaminare tali circostanze, avendole anzi tenute ben presenti, come dimostrato dal riferimento all’attività professionale svolta dalla ricorrente fino alla nascita della figlia e al suo abbandono del lavoro per dedicarsi ai “compiti di accudimento”. La Corte ha inoltre precisato che, sebbene in passato avesse affermato che l’efficacia di un accordo in base al quale uno dei coniugi non lavori permane anche dopo la separazione, tale principio vale a mantenere un assetto che sia il frutto di un concorde indirizzo della vita familiare, ma non a perpetuare una condizione avvertita come un’imposizione.

Il quinto motivo, concernente l’illegittima retrodatazione della riduzione dell’assegno alla pronuncia di primo grado, è stato dichiarato inammissibile, in quanto la Corte ha ritenuto che la Corte d’Appello si fosse limitata a prevedere la diminuzione dell’assegno con una retrodatazione rispetto al momento in cui la decisione era stata assunta, senza prendere in esame la questione della ripetibilità o della compensabilità degli importi eventualmente corrisposti in eccedenza.

Infine, l’accoglimento del secondo motivo ha comportato l’assorbimento del sesto, relativo alla condanna alle spese processuali, mentre il motivo di ricorso incidentale è stato dichiarato inammissibile, in quanto la Cassazione ha ritenuto che il mancato esame della relazione dei servizi sociali lamentato dal ricorrente non avesse determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia.

In conclusione, la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e ha rinviato la causa alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, cui ha demandato di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

ESTRATTO DELLA SENTENZA

“È principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui in tema di separazione fra coniugi l’attitudine al proficuo lavoro dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, che deve al riguardo tener conto non solo dei redditi in denaro, ma anche di ogni utilità o capacità suscettibile di valutazione economica; con l’avvertenza, però, che l’attitudine al lavoro assume rilievo solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale, e non già di mere valutazioni astratte e ipotetiche.”

“Questo principio non può essere amplificato fino al punto di ritenere che una concreta attitudine al lavoro, capace di trovare un positivo riscontro sul mercato, possa rimanere non sfruttata a causa dell’inerzia dello stesso richiedente l’assegno, con il risultato di addossare l’onere del suo mantenimento sul coniuge separato e occupato, in quanto un simile contegno inattivo si pone in contrasto con il reale contenuto del dovere di assistenza coniugale, comunque persistente in caso di separazione fino allo scioglimento del matrimonio.”

“In vero, se l’assegno di mantenimento di cui all’art. 156 c.c., trova giustificazione nella persistenza di tale dovere, onde consentire al coniuge che non abbia adeguati redditi propri di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, la richiesta di assistenza incontra un limite nel non potere ampliata sino a pretendere quanto lo stesso coniuge meno abbiente potrebbe procurarsi mettendo ragionevolmente a frutto le proprie attitudini.”

“In altri termini, come quello con maggiori possibilità economiche è tenuto a sovvenire il coniuge sotto questo profilo più debole, così quest’ultimo non può correttamente chiedere quanto è in grado, secondo il canone dell'”ordinaria diligenza”, di procurarsi da solo.”

“Dunque, posto che la prova del ricorrere dei presupposti dell’assegno incombe su chi chiede il mantenimento, grava sulla parte che richiede il riconoscimento di un simile assegno dimostrare l’esistenza di una condizione personale, patrimoniale e reddituale che giustifichi la richiesta del beneficio e il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, mentre è onere di chi eccepisce il ricorrere di fatti impeditivi all’accoglimento di una simile richiesta fornire il relativo riscontro.”

“Rientra nell’onere probatorio del coniuge richiedente l’assegno anche la dimostrazione della non colpevolezza di una simile condizione, quando – come nel caso in esame – sia stato accertato, in fatto, che questi aveva la possibilità di lavorare.”

“Il che significa, più precisamente, che in questo caso rimane a carico del richiedente l’assegno di mantenimento il compito di dimostrare di essersi concretamente attivato e proposto sul mercato del lavoro per reperire un’occupazione lavorativa retribuita confacente alle proprie attitudini e mettere così a frutto le capacità professionali possedute.”

“Il riconoscimento dell’assegno di mantenimento per mancanza di adeguati redditi propri previsto dall’art. 156 c.c., essendo espressione del dovere solidaristico di assistenza materiale, non può estendersi a ciò che l’istante sia in grado, secondo il canone dell'”ordinaria diligenza”, di procurarsi da solo. Rimane perciò a carico del coniuge richiedente l’assegno di mantenimento, ove risulti accertata in fatto la sua possibilità di lavorare, l’onere di dimostrare di essersi inutilmente attivato e proposto sul mercato occupazionale per mettere a frutto le proprie attuali attitudini professionali.”

(Corte di Cassazione, ordinanza n. 20866 del 2021).

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