Ferie negate senza Green Pass: Tribunale di Bologna, 2024

Nel 2024, il Tribunale di Bologna ha emesso una sentenza che getta nuova luce sulla controversa questione del Green Pass nei luoghi di lavoro. Il caso in esame solleva interrogativi cruciali: può un datore di lavoro negare le ferie a un dipendente privo di certificazione verde? Quali sono i limiti del diritto di critica del lavoratore sui social media? Questa sentenza fornisce risposte illuminanti, delineando un quadro giuridico che equilibra diritti dei lavoratori e esigenze di sicurezza pubblica.

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Per una comprensione completa della vicenda giudiziaria, ti invitiamo a proseguire con la lettura del testo completo.

Indice:

  • ESPOSIZIONE DEI FATTI
  • NORMATIVA E PRECEDENTI
  • DECISIONE DEL CASO E ANALISI
  • ESTRATTO DELLA SENTENZA

ESPOSIZIONE DEI FATTI

La vicenda giudiziaria ha origine da un ricorso presentato da un lavoratore contro la propria azienda datrice di lavoro. Il dipendente contestava due aspetti principali: in primo luogo, l’illegittimità di una sanzione disciplinare consistente nella sospensione dal servizio, comminata a seguito di un post su Facebook ritenuto diffamatorio dall’azienda. In secondo luogo, il lavoratore impugnava la decurtazione retributiva applicata per alcuni giorni di ottobre e novembre 2021, motivata come “assenza ingiustificata no gp“.

Il ricorrente sosteneva che il post su Facebook, oggetto della sanzione disciplinare, contenesse solo fatti veri e non fosse formulato in termini offensivi. Inoltre, affermava che l’azienda non fosse identificabile dal contenuto del post. Riguardo alle trattenute salariali, il lavoratore argomentava che, nonostante fosse privo di Green Pass, in quei giorni si trovava in ferie regolarmente autorizzate dall’azienda, e pertanto non avrebbe dovuto subire alcuna decurtazione.

D’altro canto, l’azienda resistente contestava fermamente le affermazioni del dipendente. Sosteneva che il post su Facebook fosse chiaramente denigratorio nei confronti della società, facilmente riconoscibile nel testo, e che le trattenute fossero state operate legittimamente. L’azienda argomentava che, essendo il rapporto di lavoro sospeso a causa della mancanza di Green Pass, anche gli istituti contrattuali correlati, comprese le ferie, fossero sospesi.

Il caso si è quindi concentrato su due questioni cruciali: la legittimità della sanzione disciplinare per il post su Facebook e la correttezza delle trattenute salariali applicate durante il periodo di presunta assenza ingiustificata per mancanza di Green Pass, nonostante la concomitanza con un periodo di ferie programmate.

NORMATIVA E PRECEDENTI

Il caso in esame si inserisce nel complesso quadro normativo sviluppatosi durante l’emergenza pandemica da COVID-19, con particolare riferimento alle disposizioni sul Green Pass nei luoghi di lavoro. La decisione del Tribunale di Bologna si basa su un’attenta analisi della legislazione vigente e dei precedenti giurisprudenziali rilevanti.

Il Decreto Legge n. 52/2021, convertito con modificazioni dalla Legge n. 87/2021, ha introdotto l’art. 9-septies, comma 6, che ha stabilito le conseguenze per i lavoratori privati privi di Green Pass. In particolare, la norma prevedeva che tali lavoratori fossero considerati assenti ingiustificati fino alla presentazione della certificazione, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del posto di lavoro, ma senza diritto alla retribuzione o ad altri compensi.

Successivamente, il Decreto Legge n. 127/2021, convertito dalla Legge n. 165/2021, ha ribadito l’obbligo di possesso del Green Pass per l’accesso ai luoghi di lavoro a partire dal 15 ottobre 2021. Il Decreto Legge n. 139/2021, convertito in Legge n. 205/2021, ha inoltre introdotto l’obbligo per i lavoratori di comunicare con congruo preavviso l’eventuale mancato possesso della certificazione, in caso di richiesta del datore di lavoro per specifiche esigenze organizzative.

Relativamente alla questione della critica del lavoratore sui social media, il Tribunale ha fatto riferimento a importanti precedenti della Corte di Cassazione. In particolare, la sentenza n. 27939/2021 della Cassazione civile, sezione lavoro, ha stabilito che costituisce grave insubordinazione la diffusione su Facebook di contenuti gravemente offensivi nei confronti dei superiori e dei vertici aziendali, in quanto il mezzo utilizzato è idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone.

Inoltre, la sentenza n. 12142/2024 della Cassazione civile, sezione lavoro, ha ribadito che la diffusione su Facebook di un commento offensivo nei confronti del datore di lavoro può costituire giusta causa di licenziamento, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo. La Corte ha sottolineato la potenziale viralità dei contenuti pubblicati sui social network, che possono sfuggire al controllo dell’autore e raggiungere un pubblico indeterminato.

Per quanto riguarda i limiti del diritto di critica del lavoratore, la sentenza n. 14527/2018 della Cassazione civile, sezione lavoro, ha stabilito che, sebbene tale diritto sia garantito dagli articoli 21 e 39 della Costituzione, esso incontra i limiti della correttezza formale imposti dall’esigenza di tutela della persona umana, ex art. 2 della Costituzione. Il superamento di tali limiti, con l’attribuzione al datore di lavoro di qualità apertamente disonorevoli o riferimenti infamanti, può costituire giusta causa di licenziamento.

Queste norme e precedenti giurisprudenziali hanno fornito il quadro di riferimento per la decisione del Tribunale di Bologna, che ha dovuto bilanciare il diritto alla libera espressione del lavoratore con gli obblighi di correttezza e buona fede nel rapporto di lavoro, nonché le esigenze di sicurezza pubblica legate all’emergenza sanitaria.

DECISIONE DEL CASO E ANALISI

Il Tribunale di Bologna, nella sua decisione, ha affrontato separatamente le due questioni principali sollevate dal ricorrente: la legittimità della sanzione disciplinare per il post su Facebook e la correttezza delle trattenute salariali applicate durante il periodo di assenza per mancanza di Green Pass.

Riguardo alle trattenute salariali, il giudice ha ritenuto legittimo il comportamento dell’azienda. La motivazione si basa sul fatto che il ricorrente si è presentato sul luogo di lavoro senza la certificazione verde richiesta dalla legge. Il Tribunale ha sottolineato che le norme vigenti ponevano il possesso del Green Pass come condizione necessaria per l’accesso al luogo di lavoro. Di conseguenza, la mancanza di tale certificazione impediva al lavoratore l’accesso, comportando la sospensione del rapporto di lavoro e la qualificazione dell’assenza come ingiustificata.

Il giudice ha inoltre affermato che, essendo il rapporto di lavoro sospeso ex lege, anche le ferie programmate dall’1 al 7 novembre 2021 non potevano essere fruite né retribuite. Questa decisione sottolinea che la sospensione del rapporto di lavoro per mancanza di Green Pass ha effetti estesi a tutti gli istituti contrattuali, incluse le ferie.

Per quanto concerne la sanzione disciplinare relativa al post su Facebook, il Tribunale ha ritenuto legittima la sospensione disposta dall’azienda. Il giudice ha basato la sua decisione su diversi elementi:

  1. Il contenuto del post è stato considerato diffamatorio, in quanto accusava l’azienda di condotte illegittime e prevaricatrici che, in realtà, non sussistevano.
  2. Il ricorrente ha affermato di essere stato minacciato di provvedimenti disciplinari se avesse pubblicato commenti sui social, un’accusa grave e non provata.
  3. L’azienda è stata accusata di costringere i dipendenti a spendere somme ingenti per i tamponi o a sottoporsi a vaccinazioni potenzialmente dannose, affermazioni ritenute ingiustificate dal giudice.
  4. Il post criticava aspramente i colleghi che accettavano la situazione, definendoli “complici” e “omertosi”.
  5. Il riferimento all’azienda datrice di lavoro è stato ritenuto chiaro e identificabile nel post.

Il Tribunale ha sottolineato che, sebbene il diritto di critica del lavoratore sia costituzionalmente garantito, esso incontra i limiti della correttezza formale e della continenza. Nel caso specifico, il giudice ha ritenuto che tali limiti siano stati superati, con l’attribuzione all’azienda di comportamenti inesistenti e gravi, non giustificati dalla realtà dei fatti.

La decisione si allinea con la giurisprudenza della Cassazione citata, che considera la diffusione di commenti offensivi sui social network potenzialmente lesiva del vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro, data la capacità di questi mezzi di far circolare rapidamente i messaggi tra un pubblico indeterminato.

In conclusione, il Tribunale di Bologna ha rigettato tutte le domande del ricorrente, ritenendo legittime sia le trattenute salariali che la sanzione disciplinare. Questa sentenza offre importanti spunti di riflessione sul delicato equilibrio tra diritti dei lavoratori, obblighi contrattuali e misure di sicurezza pubblica in un contesto di emergenza sanitaria, nonché sui limiti del diritto di critica del lavoratore nell’era dei social media.

ESTRATTO DELLA SENTENZA

Nel caso in esame, da un lato il contenuto del “post” assume come illegittima e prevaricatrice la condotta della società resistente, il che non è, per i motivi detti. Dall’altro il ricorrente afferma di essere stato minacciato di provvedimenti disciplinari ove avesse pubblicato commenti su Facebook. Nel post si legge “Mi hanno minacciato che avrebbero preso provvedimenti se riportavo quanto mi sta succedendo sui social. Divieto di scegliere quindi! Divieto di parlare perciò! se il messaggio non fosse stato per me chiaro mi hanno erogato tre giorni di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione”. Inoltre, la società è accusata dal ricorrente di costringere i suoi dipendenti a spendere notevoli somme di danaro o a farsi iniettare un siero che fa male: “Intanto le imposizioni di massimo rigore (a loro dire) continuano per tutti i miei colleghi: pagarsi a cifre esose mai calmierate (Euro 15) ciascun tampone ogni 48 ore o farsi inoculare il siero sconosciuto dentro il proprio corpo…… La passività o proteste silenziose con questi signori porta solo ad addossarvi di complicità con loro stessi, li autorizzate a farvi fare del male. Come lo definireste tutto ciò che vi arriva se non male? (…) io desidero di far parte di comunità di esseri umani che reagiscono con dignità, che non accettano situazioni indegne, per cui continuerò ad assumere scelte in tale direzione”. E i colleghi che accettano lo stato delle cose sono giudicati complici e omertosi: “E voi che fate?… La passività con questi signori porta solo alla complicità con loro stessi …. Ribadire di essere ” “, di “fare ognuno ciò che sente”, di “resistere” di “aspettare”, non capite che equivale a essere omertosi. Sì OMERTOSI …”. Né può ritenersi – come afferma il ricorrente – che non fosse chiaro il riferimento alla società datrice di lavoro, visto che il “post” inizia con ” 10 dicembre 2021″. Alla luce di tali considerazioni deve ritenersi che sussistano i presupposti per la diffamazione, con riferimento non solo all’illegittimità della condotta della società, invero insussistente, ma anche al travalicamento del requisito della continenza, le modalità espressive attraverso le quali si estrinseca il diritto alla libera manifestazione del pensiero, che presuppone una forma espositiva della critica, funzionale alla disapprovazione del pensiero altrui, senza però che trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione della reputazione degli altri soggetti coinvolti.

(Tribunale di Bologna, Sentenza n. 883/2024)

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