La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 5992/2025 segna un punto di svolta decisivo nella tutela dei diritti fondamentali e nella responsabilità della Pubblica Amministrazione in contesti emergenziali. Con questa pronuncia, la Suprema Corte ha esaminato il delicato caso del trattenimento forzato di 177 migranti a bordo della nave “Diciotti” della Guardia Costiera italiana, avvenuto nell’agosto 2018. I migranti, soccorsi in mare, furono trattenuti per dieci giorni: inizialmente per quattro giorni a causa del mancato consenso all’attracco nei porti italiani, e successivamente per ulteriori sei giorni, nonostante la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, a causa del mancato consenso allo sbarco.
La Cassazione ha stabilito che tale condotta costituisce una illegittima restrizione della libertà personale, non giustificata da provvedimenti amministrativi o giudiziari, in violazione dell’articolo 13 della Costituzione italiana e dell’articolo 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte ha ribadito che le ragioni politiche, anche se connesse alla gestione dei flussi migratori e a controversie internazionali, non possono giustificare la limitazione di diritti fondamentali e inviolabili della persona in assenza di basi normative e provvedimenti formali.
Di particolare rilevanza è la statuizione secondo cui, in materia di danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di diritti inviolabili, è possibile fare ricorso a presunzioni per dimostrare il pregiudizio subito, essendo la privazione della libertà personale di per sé idonea a configurare un danno risarcibile. La decisione, riformando la sentenza della Corte d’Appello di Roma, ha stabilito importanti principi in materia di responsabilità civile della Pubblica Amministrazione e di tutela dei diritti umani, con implicazioni significative per futuri casi analoghi.
Avv. Cosimo Montinaro – email segreteria@studiomontinaro.it
Indice
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI
La vicenda al centro della controversia risale all’agosto 2018, quando un gruppo di cittadini eritrei venne soccorso in mare dalla nave “U. Diciotti” della Guardia Costiera italiana. I fatti si svilupparono in due fasi distinte, entrambe caratterizzate dalla restrizione della libertà personale dei migranti a bordo: dapprima per quattro giorni a causa del mancato consenso all’attracco della nave in un porto italiano, e successivamente per ulteriori sei giorni, durante i quali, nonostante la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, non venne concessa l’autorizzazione allo sbarco.
I migranti furono dunque costretti a permanere sulla nave militare per un totale di dieci giorni, in condizioni di evidente limitazione della loro libertà di movimento. Durante questo periodo, come riferito dal Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che salì a bordo il 23 agosto 2018, i migranti erano sorvegliati costantemente da squadre dell’equipaggio e da nuclei delle Forze di Polizia, con un membro armato, mentre un sistema di videosorveglianza monitorava ogni area destinata ai migranti.
Inoltre, erano stati requisiti i telefoni cellulari, impedendo così qualsiasi comunicazione con l’esterno, inclusa la possibilità di contattare familiari. Le autorità italiane giustificarono tale trattenimento con la necessità di ottenere una soluzione a livello europeo per la ridistribuzione dei migranti tra i vari Stati membri, sostenendo che la responsabilità dell’assistenza e dell’accoglienza spettasse a Malta, nella cui zona SAR (Search and Rescue) era avvenuto il salvataggio.
Il trattenimento si protrasse fino a quando, il 24 agosto 2018, in seguito ad una riunione in ambito europeo, venne finalmente rilasciato il POS (Place of Safety) dal Dipartimento per l’Immigrazione e le Libertà Civili, consentendo così lo sbarco dei migranti nella notte tra il 25 e il 26 agosto 2018.
Uno dei migranti coinvolti, insieme ad altri connazionali, presentò ricorso al Tribunale di Roma nel dicembre 2018, chiedendo il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti a causa dell’illegittima restrizione della libertà personale. Il Tribunale, con ordinanza del 9 luglio 2019, dichiarò l’assoluta carenza di giurisdizione, ritenendo che i comportamenti censurati avessero natura di atti politici.
La Corte d’Appello di Roma, pur riconoscendo la sussistenza della giurisdizione ordinaria, respinse nel merito la domanda, ritenendo non sussistente la colpa della Pubblica Amministrazione e non provato il danno conseguenza.
NORMATIVA E PRECEDENTI
Il quadro normativo all’interno del quale si colloca la vicenda comprende una pluralità di fonti di rango costituzionale, convenzionale e ordinario che disciplinano tanto la libertà personale quanto gli obblighi di soccorso in mare.
L’articolo 13 della Costituzione italiana sancisce l’inviolabilità della libertà personale, disponendo che qualsiasi forma di restrizione debba avvenire esclusivamente nei casi e modi previsti dalla legge e con atto motivato dell’autorità giudiziaria. Sul piano internazionale, l’articolo 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo prevede che nessuno possa essere privato della libertà personale se non nei casi specificamente previsti e secondo le procedure prescritte dalla legge.
La Cassazione richiama espressamente la sentenza Khlaifia and Others v. Italy della Corte EDU, che ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 5 CEDU in un caso analogo di trattenimento di migranti tunisini a bordo di navi ormeggiate nel porto di Palermo. In tale occasione, la Corte di Strasburgo ha escluso che il trattenimento a bordo di una nave costiera potesse rientrare nelle eccezioni previste dall’articolo 5, par. 1, lett. f) della CEDU, sottolineando la necessità che qualsiasi privazione della libertà personale abbia una base legale chiara e intellegibile nel diritto interno.
Per quanto riguarda il soccorso in mare, la Corte richiama un consolidato corpo normativo di diritto internazionale, incluse la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) del 1974, la Convenzione SAR di Amburgo del 1979 e la Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay sul Diritto del Mare del 1982. Queste norme impongono l’obbligo di prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare e di completare l’operazione di soccorso garantendo lo sbarco in un “luogo sicuro” (POS – Place of Safety) nel più breve tempo ragionevolmente possibile.
La Corte sottolinea inoltre che le Linee guida IMO (International Maritime Organization) del 2004 escludono che la nave stessa possa essere considerata un POS, se non temporaneamente, evidenziando come la procedura di sbarco debba necessariamente concludersi entro un termine ragionevole.
DECISIONE DEL CASO E ANALISI
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno accolto il ricorso del migrante, rigettando contestualmente il ricorso incidentale condizionato proposto dalle amministrazioni resistenti. La Corte ha stabilito l’infondatezza della tesi secondo cui il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti costituirebbe un atto politico sottratto al controllo giurisdizionale.
Richiamando un proprio recente orientamento (sentenza n. 27177 del 22/09/2023), la Suprema Corte ha precisato che la nozione di atto politico deve essere interpretata restrittivamente, essendo sottratti al sindacato giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico. Nel caso in esame, non si trattava di un atto “libero nel fine“, ma di un atto espressione di una funzione amministrativa da svolgere nel rispetto delle norme nazionali e internazionali che ne segnavano i confini.
La Corte ha poi affrontato il profilo della colpa della Pubblica Amministrazione, respingendo l’argomento della Corte d’Appello secondo cui l’incertezza normativa in ordine all’individuazione dello Stato competente e la complessità della situazione avrebbero escluso la colpa. Secondo le Sezioni Unite, il quadro normativo di riferimento era sufficientemente chiaro nell’evidenziare le responsabilità dello “Stato di primo contatto” anche in caso di rifiuto dello Stato competente secondo la zona SAR.
Particolarmente significativa è l’analisi relativa alla violazione della libertà personale. La Corte ha evidenziato che il trattenimento dei migranti, privo di qualsiasi provvedimento giudiziario o amministrativo e della successiva convalida, costituisce una chiara violazione dell’articolo 13 della Costituzione e dell’articolo 5 della CEDU. Citando la Corte Costituzionale (sentenza n. 105 del 2021), le Sezioni Unite hanno ricordato che la libertà personale è un diritto universale che spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani, e che nessuna esigenza di controllo dei flussi migratori può giustificarne la compressione in assenza delle garanzie previste dalla legge.
Infine, in merito al danno non patrimoniale, la Corte ha stabilito che in ipotesi di restrizione della libertà personale è possibile fare ricorso a presunzioni per dimostrare il pregiudizio subito, essendo la privazione della libertà personale per dieci giorni di per sé idonea a configurare un danno risarcibile alla dignità umana.
ESTRATTO DELLA SENTENZA
“Deve, infatti, escludersi che nei comportamenti indicati a fondamento della pretesa risarcitoria possano ravvisarsi i tratti tipologici dell’atto politico per così dire ‘puro’, come tale sottratto al sindacato giurisdizionale. Non lo è perché non rappresenta un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici concernenti la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione. Non si è di fronte, cioè, ad un atto che attiene alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali. Si è in presenza, piuttosto, di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere, sia pure in attuazione di un indirizzo politico, al fine di contemperare gli interessi in gioco e che proprio per questo si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini. Le motivazioni politiche alla base della condotta non ne snaturano la qualificazione, non rendono, cioè, politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo. […] Analogamente nel caso in esame, l’insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l’arbitrarietà del trattenimento dei migranti ai sensi dell’art. 5 CEDU, atteso che l’art. 13 della Costituzione prescrive il cumulativo soddisfacimento di entrambe le riserve, di giurisdizione e di legge, affinché possa dirsi integrata una legittima restrizione della libertà personale. […] In particolare, in ipotesi, quale quella di specie, di restrizione della libertà personale, i margini di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ferma restando la non predicabilità di un danno in re ipsa, risultano particolarmente forti, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari come quelli di cui si tratta. Ciò tanto più ove si consideri la dimensione eminentemente soggettiva e interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire (danno morale), all’esistenza del quale non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato.”
(Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza n. 5992/2025)