Una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha affrontato un tema di grande rilevanza nell’ambito del diritto di famiglia, ribadendo principi fondamentali in materia di assegno di mantenimento a seguito di separazione personale. La questione centrale riguarda la determinazione dell’assegno in favore del coniuge economicamente più debole, con particolare attenzione alla distinzione concettuale tra l’istituto dell’assegno di mantenimento nella separazione e quello dell’assegno divorzile. Nel caso esaminato, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare se la capacità lavorativa del coniuge richiedente l’assegno possa escludere il diritto allo stesso, nonostante il persistere di un significativo divario economico tra le parti. Il ricorrente, un ex Carabiniere in pensione, contestava la decisione della Corte d’Appello che aveva riconosciuto un assegno di mantenimento alla moglie, nonostante quest’ultima avesse una propria capacità reddituale, seppur inferiore e discontinua. La vicenda processuale si è sviluppata attraverso tre gradi di giudizio, con pronunciamenti che hanno progressivamente definito la questione dell’addebito della separazione e del riconoscimento dell’assegno di mantenimento. Di particolare interesse risulta l’analisi condotta dalla Cassazione sulla natura giuridica dell’assegno di mantenimento e sui presupposti per la sua concessione, con un focus specifico sul parametro del tenore di vita matrimoniale quale elemento discriminante rispetto all’assegno divorzile. Quest’ultimo, infatti, trova il suo fondamento nella solidarietà post-coniugale, mentre il primo si radica nel persistente dovere di assistenza materiale tra coniugi, nonostante la separazione personale. I giudici di legittimità hanno inoltre affrontato la questione dell’incidenza che può avere, sulla determinazione dell’assegno, un credito vantato da un coniuge nei confronti dell’altro, quando tale credito sia ancora oggetto di contenzioso giudiziario. La decisione si inserisce nel solco della consolidata giurisprudenza della Suprema Corte in materia, ribadendo che nella separazione personale, a differenza del divorzio, permane il vincolo coniugale e con esso i doveri di assistenza materiale tra i coniugi, seppur con la sospensione degli obblighi di natura personale quali fedeltà, convivenza e collaborazione. Il caso affrontato dalla Cassazione nel 2025 offre interessanti spunti di riflessione sia sotto il profilo sostanziale che processuale, delineando con chiarezza i confini tra i diversi istituti del diritto di famiglia.
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Indice
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
ESPOSIZIONE DEI FATTI
La vicenda giudiziaria prende avvio con un ricorso depositato nel dicembre 2018 con cui la signora B.B. chiedeva al Tribunale di Mantova di pronunciare la separazione personale dal marito A.A., con dichiarazione di addebito a carico di quest’ultimo e contestuale riconoscimento di un assegno di mantenimento mensile. La richiedente esponeva di aver contratto matrimonio con il signor A.A. nell’agosto del 1988, unione dalla quale erano nati due figli, entrambi maggiorenni ed economicamente autosufficienti al momento della presentazione della domanda. Il matrimonio, secondo quanto sostenuto dalla ricorrente, si era deteriorato a causa dei comportamenti contrari ai doveri matrimoniali tenuti dal marito, con particolare riferimento alle numerose relazioni extraconiugali intrattenute dallo stesso nel corso degli anni.
Un aspetto particolarmente significativo della vicenda riguardava la situazione economico-lavorativa della moglie, la quale riferiva di aver dovuto abbandonare il proprio impiego a tempo pieno e indeterminato presso una nota società dopo la nascita del secondo figlio, per dedicarsi all’accudimento della famiglia. Solo successivamente, a fronte delle continue accuse mosse dal marito che la definiva “fannullona”, aveva iniziato ad accettare lavori di natura stagionale e impieghi part-time, compatibili con le esigenze familiari. Al momento della presentazione del ricorso, la signora B.B. lavorava con contratto a tempo determinato, percependo uno stipendio mensile di circa 800 euro, nettamente inferiore rispetto alla pensione del marito, ex Carabiniere, il quale beneficiava di un trattamento pensionistico di oltre 2.100 euro mensili.
La situazione patrimoniale delle parti presentava ulteriori elementi di complessità: il marito risultava intestatario di diversi immobili, mobili registrati, conti correnti e titoli, acquisiti con i frutti dei beni e con i proventi delle attività lavorative di entrambi i coniugi. La casa coniugale, di proprietà del marito, era gravata da un usufrutto in favore dei genitori di quest’ultimo, circostanza che aveva portato a frequenti richieste da parte del coniuge affinché la moglie abbandonasse l’abitazione, costringendola a dormire nella soffitta dell’immobile. La ricorrente, dal canto suo, era proprietaria pro quota insieme al fratello di un terreno seminativo di modesto valore e disponeva di una somma di denaro, depositata su un conto a lei intestato, proveniente da eredità e donazioni ricevute dai propri familiari.
Un ulteriore elemento di controversia tra i coniugi era rappresentato da un debito sottoscritto dal marito nel novembre 2011 in favore della moglie, rispetto al quale il signor A.A. si era rifiutato di ottemperare, opponendosi contestualmente a una separazione consensuale nonostante i diversi tentativi intrapresi negli anni per sciogliere bonariamente il rapporto coniugale.
Il procedimento di primo grado si è sviluppato in due fasi: inizialmente, il Tribunale di Mantova ha pronunciato una sentenza non definitiva con cui dichiarava la separazione personale dei coniugi, rimettendo la causa in istruttoria per la prosecuzione del giudizio in ordine alle questioni relative all’addebito e all’assegno di mantenimento. Successivamente, con sentenza definitiva, lo stesso Tribunale ha revocato il contributo di mantenimento precedentemente stabilito con l’ordinanza presidenziale e ha rigettato le ulteriori domande formulate dalle parti.
Avverso tale pronuncia, la signora B.B. ha proposto appello dinanzi alla Corte d’Appello di Brescia, la quale ha parzialmente accolto il gravame, riconoscendo l’addebito della separazione a carico del marito e stabilendo un assegno di mantenimento di 300 euro mensili in favore della moglie. La Corte d’Appello ha fondato la propria decisione su un’attenta valutazione delle prove documentali relative ai tradimenti del marito, ritenendo non provato che il matrimonio fosse già irrimediabilmente compromesso in un periodo antecedente alle relazioni extraconiugali e che, pertanto, queste ultime non potevano considerarsi ininfluenti rispetto alla crisi coniugale.
NORMATIVA E PRECEDENTI
Il quadro normativo di riferimento per la questione in esame trova il suo fulcro nell’articolo 156 del Codice Civile, che disciplina gli effetti patrimoniali della separazione personale tra coniugi. La disposizione stabilisce che il giudice, pronunciando la separazione, dispone a carico di uno dei coniugi l’obbligo di versare all’altro un assegno di mantenimento quando quest’ultimo non abbia adeguati redditi propri. Nella determinazione di tale assegno, il giudice deve tenere conto delle condizioni economiche dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di entrambi.
La norma in questione va necessariamente inquadrata nel più ampio contesto degli effetti della separazione personale, la quale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, non comporta l’interruzione del vincolo coniugale, ma determina soltanto la sospensione di alcuni doveri matrimoniali, in particolare quelli di natura personale quali la fedeltà, la convivenza e la collaborazione. Permangono invece gli obblighi di assistenza materiale, fondamento giuridico dell’assegno di mantenimento.
L’interpretazione dell’art. 156 c.c. è stata oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali che hanno progressivamente definito la nozione di “adeguati redditi propri“ e il parametro di riferimento per la determinazione dell’assegno. In particolare, la Corte di Cassazione ha da tempo chiarito che, in sede di separazione, i “redditi adeguati” cui va rapportato l’assegno di mantenimento sono quelli necessari a consentire al coniuge economicamente più debole di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Tra i precedenti giurisprudenziali richiamati nella sentenza in esame, particolare rilevanza assume la pronuncia della Cassazione n. 12196 del 2017, la quale ha cristallizzato la distinzione tra il fondamento dell’assegno di mantenimento nella separazione e quello dell’assegno divorzile. Quest’ultimo trova infatti la sua giustificazione nella solidarietà post-coniugale, che ha una consistenza ben diversa rispetto al persistente dovere di assistenza materiale che caratterizza, invece, la fase della separazione. La stessa linea interpretativa è stata confermata dalla successiva sentenza n. 4327 del 2022, espressamente richiamata nell’ordinanza in commento.
Sul piano processuale, la Suprema Corte richiama diversi precedenti relativi all’interpretazione degli articoli 112, 342 e 329 del Codice di Procedura Civile, con particolare riferimento alla nozione di vizio di omessa pronuncia e ai limiti del giudizio di appello. In particolare, viene ribadito il principio secondo cui non ricorre il vizio di omessa pronuncia di una sentenza di appello quando, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo (Cass., n. 15255/2019). Viene inoltre precisato che, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., il giudizio di appello, pur limitato all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati (Cass., n. 8604/2017; Cass., n. 32932/2024).
In materia di motivazione della sentenza, la Corte richiama la propria giurisprudenza sui vizi previsti dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., precisando che tali vizi sussistono solo quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento (Cass., n. 3819/2020, Cass., n. 6758/2022). Viene inoltre ribadito che l’apprezzamento delle prove costituisce attività riservata al giudice del merito, le cui valutazioni non sono sindacabili in sede di legittimità (Cass., n. 16467/2017; Cass., n. 11511/2014).